Spaghetti

La vedo dalla finestra del salone della casa di Palermo: Villa Travia. Una variegata verdura stretta dai palazzi che sembra Central Park in miniatura. Villa Travia si chiama così dall’inizio del XIX Secolo quando la comprò il Principe di Trabia e Butera Luca Branciforti. Trabia sarebbe una terra solcata dal fiume Termini a trenta chilometri da Palermo, ora non so come sia ridotta ma nel 1154 doveva essere una piana rigogliosa e amena, con il suo corso d’acqua popolato da salmoni, a star a quel che scrisse Al -Idrisi, geografo marocchino del re di Sicilia Ruggero II.  Qui si faceva una sorta di spaghetto, si fabbricavano vermicelli sicché questo fatto, a noi trasmesso dalle parole del suddetto geografo nel Libro di Ruggero, ci fa presumere che nel Medioevo si mangiassero gli spaghetti. In realtà il vermicello medievale altro non è che lo “itriyya” arabo ossia, una sorta di capelli d’angelo che nel multietnico regno normanno si esportava ovunque. I lunghi, sottili filamenti di farina essiccata da cuocere in acqua bollente sono noti sin dal X secolo nella cucina Tunisina e, in precedenza, si menziona questo cibo nella dieta ebraica sotto il nome jiddish di Vrimzlish. Il fatto che esistesse un simile alimento sulla tavola medioevale stimola un riassetto genealogico sì da ridiscutere il primato dell’importazione attribuito a Marco Polo di ritorno dalla Cina. Il vermicello, inteso nella sua accezione arabo-normanna, viene trasmesso nel tempo sino alla sua più onesta e pura discendenza che solo nella provincia di Viterbo prende 28 denominazioni diverse. Oggi senza discutere i natali della pasta se ne può apprezzare il portato semantico che varia dalla indicazione geografica tipica al carattere antropologico, dalla sua importanza “sintattica” nel fraseggio mimico dell’italiano all’iconografia. Così, lo spaghetto non solo è sinonimo di italianità, ma anche di dono come dire: “un piatto di pasta non si nega a nessuno” o, nella scena di Miseria  e nobiltà insostituibile aggancio tra mano e bocca, fino al seducente intreccio ondulatorio del terzo registro dell’americanissimo quadro I Love You with My Ford.

 

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James Rosenquist (b. 1933). I Love You with My Ford, 1961. Oil on canvas, 1 m 109.23 cm x 2 m 57.5 cm. Moderna Museet, Stockholm. © James Rosenquist / Licensed by VAGA, New York, NY

 

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