Bon Appetit! di Emiliano Stella

verticaleSpesso l’arte porta a un risultato imprevisto dato dall’inconsapevole permeabilità di sentimenti che accampano al di sotto dell’area di controllo della tecnica. Il tema di questa mostra conclusa alla fine di agosto ad Avellino (“Bon Appétit” di Emiliano Stella, 21 giugno al 28 luglio, Casina del Principe,  Avellino ) è il cibo, forse ecco il motivo per cui ne parlo qui, l’artista si chiama Emiliano Stella. In questa mostra il pittore campano (Avellino 1978) credendo in una pittura di ispirazione Pop sfugge inconsapevolmente a questo stile, forse scelto per la sua universale riconoscibilità ottenendo un effetto a dir poco contrario. Questi volti allucinati, evidentemente debordanti dal rigore della posa, raggiungono piuttosto l’algido isolamento del Realismo Magico degli anni Trenta del XX Secolo. La gravida bevitrice di latte, la degustatrice di maccheroni al sugo, la signora con il calice in mano sono delle modelle improvvisate, acute simulatrici del glamour, regine di una pantomima pseudo mediatica di un grottesco abbagliante. La pittura di Stella è sempre stata, infatti, intrisa di una malinconica manipolazione del referente visivo come quando alla Biennale di Venezia del 2011 in quella curiosa sezione partenopea curata da Vittorio Sgarbi a Salerno (ex tabacchificio Centola) espose un Bill Gates che orinava facendo crescere l’albero di Microsoft. Ecco ora un ciclo di opere sul cibo, nell’anno dell’Expo, in un’installazione articolata in bande verticali che riproducono ossessivamente un’ immagine legata all’alimentazione, ripetuta come in fotogrammi, in una decorazione troppo ovviamente associata all’immagine che va ad incorniciare. Questa ripetizione finisce stanislaskiamente per annullare il significato, diventando rumore di fondo, aumentando in tal modo il sarcasmo di questa galleria di pseudo-dive. Stella ha centrato quell’aspetto performativo del cibo, trasformato in espediente scenico dallo show coocking, da servo di scena dal sapore irrilevante. Soffermiamoci sul rosso del sugo di quei rigatoni, è piatto, così come lo sguardo di colei che li sta gustando è del tutto avulso da un contesto frutto dell’artefatto assoluto del brand. Quelle facce potrebbero star benissimo sull’etichetta di un prodotto, non vi pare? Eppure non è così, ognuna di queste immagini ha qualcosa oltre l’apparenza. È l’ordinario che sopravvive su una scena esageratamente eclatante, si vede nei volti in cui traspare l’improvvisazione come se fossero stati beccati da un selfie. Forse proprio questa potrebbe essere la nuova frontiera scovata dall’arte, una dimensione che fa della tavola di tutti i giorni un palcoscenico, una finzione del reale.

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