Storie di vino e di anarchia: quando Veronelli visitò l’isola di Santo Stefano.

Protagonista principale un isolotto distante quasi due km dall’isola di Ventotene (che a sua volta è lontana dalla costa di Gaeta quasi 50 km).come-raggiungere-lisola-di-ventotene-e-cosa-visitare_3b988b4d79ff581a6731f6482ea21815

Poi, in sequenza, un anarchico giunto da Oltreoceano per assassinare un re, un editore-enologo-cuoco gastronomo, anarchico anch’egli, e un vignaiolo coraggioso. Senza dimenticare un direttore di carcere troppo illuminato per i suoi tempi (pure per la Dc di Scelba e Tambroni) e, soprattutto, la memoria di uomini morti senza nome. In mezzo a loro il mar Tirreno, a cavallo tra il Lazio e la Campania.

Santo Stefano, disabitata, più che un’isola è tutta un viottolo a picco sul mare: non una strada che possa dirsi tale, nessun mezzo di locomozione a motore, nessun rumore. Estesa per 27 ettari, all’incirca 30-35 campi da calcio, territorio selvaggio e di una bellezza struggente, da sempre è stato luogo di deportazione: Augusto vi relegò la figlia Giulia; Tiberio, Agrippina; Nerone, la moglie Ottavia, e qui la fece uccidere. A fine Settecento Ferdinando IV di Borbone vi fece costruire un penitenziario di massima sicurezza, da fine pena mai: maestoso, con le sue pertinenze è l’unico edificio dell’isola. L’architetto Francesco Carpi, progettandolo, si ispirò al teatro San Carlo di Napoli e ai principi illuministici del carcere ideale, il Panopticon, secondo cui tutti i detenuti, reclusi dentro le proprie celle disposte a semicerchio su tre livelli, potessero essere sorvegliati dai guardiani posti in un corpo centrale. Immaginate appunto un teatro, solo che sul palcoscenico ci sono i custodi dell’ordine e non gli attori e nelle gradinate non spettatori su comode sedie ma uomini carcerati. Tra gli ospiti più illustri in età borbonica Silvio Spaventa e Luigi IMG_5231Settembrini, sotto il Fascismo Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Umberto Terracini e il futuro Capo dello Stato Sandro Pertini. A Santo Stefano, insomma, è passata la storia risorgimentale e liberale. E ci ha passato gli ultimi dieci mesi di vita l’anarchico Gaetano Bresci, morto ammazzato di botte nel 1901 dai regi secondini. Il referto ufficiale dirà caduto da una finestra: gli anarchici italiani, si sa, con le finestre hanno un problema.IMG_5232
A raccontare Santo Stefano e a conservarne la memoria insieme al piccolo molo per l’approdo e ai viottoli per l’ascesa in cima, è rimasto Salvatore Schiano di Colella: studioso, guida, anima del luogo, ha l’incarico per conto di un’associazione che ha ricevuto l’affidamento di Santo Stefano dal Comune di Ventotene. Sornione, competente e ironico Salvatore descrive, narra della “Repubblica di Santo Stefano” istituita da un gruppo di camorristi nell’ottobre 1860, delle evasioni tentate e quasi mai riuscite (tra cui quella nel 1960 di Benito Lucidi e Antonio Piermartini “il mostro di Vignanello”: aveva ucciso il padre con 30 colpi di mitra per eliminare lo scomodo testimone di un suo precedente duplice delitto). E parla, Schiano di Colella, anche di Eugenio Perucatti, direttore del carcere negli anni Cinquanta, che tra i primi in Italia (e forse nel mondo) aveva pensato alla pena come rieducazione del condannato, in linea con la Costituzione. Perucatti fece arrivare la corrente elettrica, il cinema, ai detenuti fu permesso di verniciare la loro cella con i colori per renderla più accogliente. Una struttura esterna fu destinata all’incontro con le famiglie dei detenuti ai quali fu permesso una volta all’anno di poter passare 24 ore fuori dal penitenziario con i propri cari. Persone celebri, come il radiocronista Nicolò Carosio o diversi cantanti napoletani, fecero visita alla struttura. Santo Stefano, che incarnava un modo di fare carcere destinato a rivoluzionare le regole e i dogmi fino ad allora prevalenti nella società italiana, iniziò quindi ad avere una certa visibilità. Quasi ovvio che il governo Tambroni trovò il modo di trasferire il direttore (la sua storia è raccontata nel libro “Quel criminale di mio padre”, scritto dal figlio di Perucatti).

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IMG_5236Il carcere chiuse nel 1965 e otto anni dopo Luigi Veronelli visitò Santo Stefano. Scriverà in seguito, in quello che forse di proposito è stato il suo ultimo articolo (e difatti a margine del testo dice: “Entro in clinica oggi pomeriggio per una operazione da cui, di solito, non si esce. Per la prima volta ho la gioia di essere stato il vostro Maestro”): “L’isolotto era stato acquistato, anni Sessanta, da un vignaiolo mitico, Mario D’Ambra (meditava d’impiantarvi vigne di forrastera e di perèpalummo). Fui il solo ospite con le mie quattro donne: Maria Teresa, moglie, Bedi, Chiara e Lucia, figlie. Dedicavo le ore familiari al mare (luogo migliore: una buca basaltica, prediletta, anni annorum, da Agrippina); le ore notturne, solo mie, all’Ergastolo, per “ricerche” sul santo martire, Gaetano Bresci. Ho camminato i lunghi corridoi e le celle; ho sostato – si arrovesciava il cuore – nelle “gabbie” di rigore, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo, sottosuolo. Chi v’era rinchiuso non poteva stare eretto. Sapevo della lunga detenzione, in quelle celle, cui era stato costretto il giovane atleta, giunto di lontano, per attentare e uccidere, 29 luglio 1900, re Umberto I. Lo aveva fatto. Ed oggi ci si rende ben conto: aveva sbagliato. Oggi”.

Continua poi: “Se la cammini, l’isola, anche nei luoghi più incantati per l’ardire senza uguali della bellezza, appena appena ti estranei, senti voci, non solo del vento. Ti raccontano le persecuzioni di cui fu oggetto, in quelle gabbie, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo. Visse da uomo libero. Non rinnegò la sua idea. Non ottenne un metro, per un metro, per un metro, di più. Non ergastolo. Fu condanna alla morte. Morì pesto e battuto nella carne (la sua anima non poteva essere battuta, pestata, offesa; era l’Anima), dieci mesi dopo la reclusione, 22 maggio 1901. Maria Teresa e le figlie – in quel periodo tra i più belli della nostra vita – una volta sola si accorsero del mio turbamento, quando entrammo nel minimo cimitero, infoibato tra le rocce (ti voltavi ed era un paradiso: il mare e, un po’ decentrata, l’isola di Ventotene). Una frase all’ingresso: “Qui finisce la giustizia degli uomini. Qui comincia la giustizia di Dio”, minime croci di ferro arrugginito e dei cartigli ai piedi. Là, proprio là, il cartiglio di Gaetano Bresci. Piangevo, va da sé; Maria Teresa mi guardava commossa. Mi prese la mano. Sorprese le bimbe e ammutolite. Trascrissi a uno a uno i nomi dei cartigli”.

Il resto della storia si intuisce. A Santo Stefano Mario D’Ambra non produsse vini, e mai nessuno dopo di lui lo farà. Ma un uomo ebbe un gesto di umanità, tramandò a futura memoria i nomi dei detenuti scritti su una croce di ferro arrugginita (“il cartiglio”), in tombe in cui nessuno ha mai portato fiori, nomi che altrimenti sarebbero stati perduti (le croci già allora erano illeggibili).

Quell’uomo si chiamava Gino Veronelli.

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