Scherzi da prete

Alla Galleria Palatina di Firenze c’è un’opera del Volterrano di straordinario dinamismo e vitalità. E’ il quadro che rappresenta la Burla del Pievano Arlotto che Baldassarre Franceschini ( Volterra 1611 – Firenze 1689) dipinse nel 1641 per Francesco Parrocchiani come ci fa sapere il Balducci, suo amico e biografo. Il quadro “di braccia 1 ¾ per 2 ½” viene inventariato, alla fine del XVII Secolo, tra le cose del Guardaroba Granducale cioè tra i dipinti che il principe Ferdinando aveva

imgresappesi nella villa di Poggio a Caiano. Questa tela dove “ diversi preti a tavola e il pievano Arlotto col boccale e lo zipolo della botte in mano, con veduta della cantina e la botte che perde” è una prova convincente della capacità narrativa di un pittore toscano che, all’affermarsi della pittura riformata, fa un uso disinvolto dell’aneddoto popolare. La  burla in questione  è quella celeberrima della botte. Invitato a tavola da una combriccola di amici,  il  padrone di casa chiese al pievano di scendere in cantina a spillare una caraffa di vino dalla botte, visto che quello che era in tavola era finito. Il Pievano, infastidito di dover far quella fatica, lui già avanti con gli anni, quando alla tavola sedevano fior di giovanotti, decise da burlone di far buon viso a cattivo gioco. Una volta risalito dalla cantina alla mensa con la caraffa in mano, con volto serio si rivolse al padrone dicendogli di sbrigarsi ad andare lui stesso in cantina, perché aveva dimenticato la botte aperta. Il quadro  immortala  la scena in cui il padrone di casa, ricevuta la notizia dal Piovano, travolge la sedia per precipitarsi  in cantina. Volterrano dipinge un brano boccaccesco dal profumo d’osteria di una tipicità vernacolare che da là arriva fino a Roberto Benigni procedendo per l’ottava rima. Guardiamo allora le figure sedute a un tavolo posto in prospettiva, stan tutti intorno al sussulto della sedia cadente al centro. É lei la protagonista della scena. La caduta del seggio è bloccata nella diagonale che scombussola tutto l’assetto conviviale, alza le vesti e mostra le calze rosse del commensale burlato, quasi a sottolinearne con quel colore ira e spavento. Il prete con la brocca e lo zipolo è l’Arlotto che lascia aperta la cavela della botte, visibile nell’ultimo ambiente a destra, per far scattare ai ripari il padrone di casa che fino al quel momento lo aveva comandato come un servo. Questa storiella popolare è tratta da una serie di scherzi che il prete della chiesa di San Cresci a Macioli, vicino Pratolino era solito fare all’epoca del Magnifico, nel primo Rinascimento. Il quadro è un saggio di bravura, non solo per il tellurico rivolgimento dei fatti, irraggiungibile da qualsivoglia scatto fotografico, ma, soprattutto per l’intreccio di sguardi e gesti che questo brusco slancio muove tutt’intorno. Guardiamo da sinistra, a capo tavola, il prete che si ritrae  portandosi in asse con la diagonale del seggio cadente, sembra spinto a sua volta dal gomito dell’altro prelato, a manca, che sfila coi denti l’arrosto dallo spiedo. Poi da

quel lato ci sono altri due, uno in particolare cerca il nostro sguardo sfilandosi dall’ingombro della figura stravolta e poi le mani, aprono e chiudono l’evento quasi comprimendolo nello spazio del tavolo. Spazi sono anche quelli che articolano la scena fatta in tre tempi che cominciano dal bagliore del castello merlato, scivolando sull’ombra diagonale del pilastro nel portico per finire in cantina con l’infilata di botti, una prospettiva semplice, ingenua. È un espediente narrativo che scuote l’abbacinante immobilità dello spiazzo col colorito chiasso dialettale dello scherzo. Quello spazio luminoso è vera Toscana, sullo sfondo si vede, infatti, la villa medicea della “Mula” costruita su un tumulo etrusco nei pressi di Sesto Fiorentino, come a dire che son luoghi noti e fatti accaduti per davvero. Ma tutta la pittura sta nello slancio della figura scossa dal prete burlone che è sostenuto nella sua rivalsa dalla faccia alticcia del giovane seminarista col tovagliolo davanti, e dalla mano sollevata su un piccolo saggio di natura morta fatta di pane, piatti, coltelli e bicchieri scintillanti. Il Volterrano raccoglie qui tutte le perizie della pittura cortonesca sfidando il colore in frustate di pennello e, procedendo per prodigi cromatici, non abbandona mai la vena comica, non cede mai al sussiego, sospende piuttosto l’azione nel vuoto palcoscenico arricchendo di acute perizie il bianco dei panneggi rendendolo funzionale a quelle masse nere che, muovendosi, diventano parola.

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