Ci sono bambini che guardano lontano e ricordano la luce del sole, il suo calore, il riflesso del mare e la luna, immaginano di volare su castelli fatati e compiere evoluzioni tra le nuvole, ci sono altri bambini che guardano vicino e ricordano profumi e morbide stoffe, colori caldi e carezze, candidi colletti di camicie e bottoni, ricami e tepori, il gusto della pappa e la luce soffusa del cavo di un abbraccio, sognano pertanto un mondo fatto di quelle cose che circondano e difendono, che con costanza acquietano le intemperanze del mondo. Domenico Gnoli (1933- 1970) fa parte di quest’ultimo tipo ed è stato uno dei più interessanti pittori del secondo Novecento. Con Gnoli ho un rapporto particolare, privato e profondo a volte suggeritore distante, reduce di una purezza intellettuale degli anni del Realismo magico. Lontano miglia marine dai fragori pop, sebbene la critica lo abbia più volte in questo ambito incluso, è il nostro Magritte, come lui innamorato della Metafisica, ce ne fornisce una versione intima come si direbbe oggi indoor, ovvero domestica.
Tra la metà degli anni Cinquanta e i Sessanta, Gnoli propose più volte il tema del ristorante, per meglio dire, delle Osterie, Osterie romane svuotate dagli schiamazzi di quello che a suo dire era: “ una specie di inventario degli elementi di Roma in cui sono cresciuto, forse della Roma che ricordo più che di quella che conosco” a questo universo memorabile appartiene il quadro Tavole di ristorante, del 1966. Quante volte l’ho visto questo vuoto d’attesa, di tavole apparecchiate di candori diversi e pieghe geometriche disposte come un pavimento quattrocentesco scandito da più nette ombre che tagliano i piani sospesi, in ritmica progressione di baratri fruscianti, nella fuga prospettica. Il taglio è dall’alto in basso ad abolire ogni sfogo oltre l’orizzonte è “ l’oggetto comune” come diceva in quegli anni Domenico “isolato dal suo abituale contesto, ci appare come testimone più inquietante di questa nostra solitudine senza più ricorso di ideologie e certezze”. Sospensione inquietante, quel vuoto fantastico che troviamo nelle quattrocentesche, nei pavimenti a scacchi che portano all’astrazione ed è anche la tovaglia comune, la sua morbidezza, il suo familiare candore da ristorante. Un quadro del periodo di successo a Ginevra “ senza precedenti”, come Domenico scrive a sua madre. Nel 1966 il gallerista svizzero Jan Krugier presenta sei opere di Gnoli a Losanna e lo lancia al Premio Marzotto opere che risuonano di quella linea “non eloquente” dell’arte italiana silenziosa, appunto, dove ogni clamore delle avanguardie è sospeso, spinto ai margini da un intervallo figurativo, fermo, apparecchiato nel nostro caso, silenziato da sudari ben stirati.Gnoli, quindi, che illustrò nel 59’ il Barone Rampante di Italo Calvino, Gnoli che ancor oggi risulta inclassificabile per la critica rimane una delle parti più alte della pittura intellettuale italiana. Gnoli, che apparecchia il vuoto desco per le domande del nostro sguardo.