Gli antenati dei Nasi Rossi nel Carnevale Romano

Molti conoscono quanto sia forte il debito del Carnevale ronciglionese nei confronti di quello popolare romano. Gli elementi comuni sono così forti che possiamo tranquillamente affermare che a Ronciglione continua a vivere ciò che la Capitale ha perduto alla fine dell’Ottocento. Le Corse dei barberi lungo via Lata (il Corso), il suono del campanone del Campidoglio, i “moccoletti” del martedì grasso, sono gli elementi più evidenti di questo rapporto .

In  due opere dell’800 si individuano delle maschere che richiamano quelli che a Ronciglione prenderanno vita come i “nasi rossi”, per i quali non sono attestate testimonianze antecedenti.

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Antoine Thomas, 1817, particolare del pulcinella con forchettone e pitale colmo di pastasciutta

In una stampa del 1817 di Antoine Thomas tra le maschere del Carnevale romano ne possiamo individuare una con forchettone e pitale colmo di pastasciutta, per il resto molto simile al classico Pulcinella, con il cappello alto di forma conica e la maschera a metà viso.

Carl Friedrich Heinrich Werner, Carnevale al Corso, 1846  photo credit: www.culturaitalia.ii
Carl Friedrich Heinrich Werner, Carnevale al Corso, 1846
photo credit: www.culturaitalia.ii

Ancora più esplicito un dipinto a olio del 1846 di Carl Friedrich Werner: in mezzo al gruppo di maschere che fanno gazzarra lungo via del Corso a Roma, si nota un personaggio dal naso rosso che indossa un vestito chiaro dai grandi bottoni, con una bianca gorgiera  e un grande cappello a larghe tese (quella frontale ripiegata in su). Costui, per altro maschera tipica del Carnevale romano, regge un lungo forchettone e un pitale traboccante pastasciutta; accanto c’è un pulcinella a cui stanno facendo tracannare una bottiglia di vino. Sono per altro ben noti i Pulcinella che si ingozzano di pasta contenuta in profonde ciotole in quasi tutte le stampe di Bartolomeo Pinelli (in particolare quella del 1818 dal titolo “Le maschere più caratteristiche del Carnevale di Roma”). Ma la stampa di Thomas ci fornisce la testimonianza del “pitale” pieno di maccaroni.

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Carl Friedrich Heinrich, Carnevale sl Corso, particolare
photo credit: Massimo Chiodi

La presenza di personaggi con “pitali” come i Nasirossi, fuor dall’apparire stravagante, trova il suo senso all’interno delle logiche “altre” del carnevale. Figure simili sono presenti nei carnevali di varie parti d’Europa e in molti paesi delle Antille. Come Malpropre, maschera del Carnevale creolo della Martinica che esibendo vaso da notte, carta igienica e scopettino rappresenta “oscenamente” la logica dell’inversione simbolica del quotidiano. In Europa è presente il Pissadou, dall’antico carnevale di Cournonterral nella regione francese del Languedoc, oggi vivo in Provenza a Pelissanne e Monfort sur Argent dove è conosciuto con il nome di Echelle. Sette o otto giovani in camicia da notte girano il paese con la testa infilata tra i pioli di una scala avanzando di traverso per tutta la larghezza della strada; insieme a loro un “maggiordomo” che porta un pot de chambre sporcato di cioccolato e riempito di confettura scura con cui li ingozza in continuazione.

Di questo genere è pure il Tio Tio in Catalogna, presente tuttora nel paese pirenaico di Camprodon  (ma anche dalla parte francese nei paesi di Prats de Mollo e di Saint Laurent de Cerdan). Anche qui il gruppo, in camicione bianco e testa infarinata, forma una fila; il primo di loro è il Tio Tio, ha in mano un « pitale » che contiene sanguinaccio e salsicce immerse nel vino rosso che offre agli spettatori. Il Tio Tio ha sul fondoschiena dei pezzi di carta a cui si tenta di dar fuoco con una candela. Tutti gli altri seguono tenendosi per il lembo della camicia da notte , cantando “el tio tio“. Troviamo qualcosa di simile a Lesaka nei Paesi Baschi, quando all’alba della domenica di Carnevale, trenta personaggi seguono la banda in fila indiana cantando e mostrando la loro pitzontia, il pitale dei baschi.

Il Carnevale era ed è inversione simbolica dell’ordine logico. E’ il tempo in cui l’osceno si manifesta per dominare sui gesti e sugli oggetti che regolano la normalità quotidiana. Gli oggetti del quotidiano sono alterati nelle loro funzioni allo scopo di liberarsi dalle costrizioni del proprio corpo, dai tabù e dalla razionalità che regola i comportamenti. Ci si affranca dalla schiavitù del quotidiano agendo creativamente sugli oggetti del quotidiano stesso. Carnevale ha una funzione apotropaica, è occasione per prendere le distanze da oggetti rituali del quotidiano, come i pitali. Una liberazione dalla parte dolorosa di sé che avviene anche e soprattutto attraverso la metamorfosi del proprio corpo, che permette di raggiungere l’estasi dionisiaca della danza e del canto.

Ma nel Carnevale odierno si esorcizza la vita di tutti i giorni? Si prendono le distanze da ciò che si esibisce?

La società ha subito una mutazione epocale, il passato e il futuro risultano annichiliti da un trionfante e perenne presente. Un presente che è vissuto nel segno di un vitalismo permanente, un presente che sembra non cessare mai; in ogni momento dell’anno si può sempre far appello alla festa per la riscossa contro il quotidiano da esorcizzare. Il Carnevale scandiva un tempo ciclico e rituale, quello delle stagioni che passano e ritornano, quello della necessità della morte del passato, era il tempo del profano che scandiva il tempo del sacro.

Oggi il tempo della festa è intermittente, ogni momento dell’anno e persino ogni momento della giornata offrono l’opportunità di tabù e di trasgressione. Un apparente dominio sugli oggetti sembra garantito dalla semplicità con la quale si buttano e si riacquistano. E allora il Carnevale non è più necessario per l’inversione, l’oblio e la metamorfosi del quotidiano.

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