A non conoscer la cicoria, si rischia di mangiare il pisciacane! L’acquacotta de la Rosina

Poche le persone che appena pranzo in primavera e d’autunno passeggiavano in fondo alla Bertina. Giocare in giardino al tiepido sole del meriggio era, almeno per me, un appuntamento fisso.

Trenta anni fa era più facile che le persone si spostassero a piedi. Da dietro i ferri verdi a reticolato che mi tenevano a distanza dalla strada, guardavo e conoscevo tutti i passanti. La Rosalba, che abitava poco più avanti. La Milanese, sua vicina di provenienza lombarda. L’zi Peppe che si sedeva sul peperino al lato della strada poco distante dalla mia casa paterna davanti a quella di Pezzato. Il dottor Egidi, elegante e forbito medico che mi avvertiva di non stare al sole nei mesi con la “erre” compreso il Gennaio, piccolo gioco per insegnarmi il nome dei mesi in latino: mensis ianuarius. La Poggettese, che ho sempre pensato fosse chimata così perchè abitante di una bellissima casa su un poggio oppure perché trasferitasi alla Bertina dalla contrada montefiasconese chiamata il poggetto.

Immancabile e precisa come un orologio la Rosina, la nonna di Filippetto, un ragazzino poco più grande di me ma che sembrava, tanto era magro, succhiato dalle streghe, o almeno cosi diceva sempre mia nonna. Lei scambiava brevi parole di saluto con tutti: il suo giardino sempre fiorito e curato in tutte le stagioni era l’argomento preferito. Con la Rosina era differente. Questa donna mi incuriosiva particolarmente, parlava molto poco. Quando il tempo era buono vestiva con il fazzoletto leggero in testa annodato dietro, l’abito era con i bottoni davanti lungo fino al ginocchio, nero o blu, le calze leggere e le scarpe scure a retina, con l’immancabile grembiule pesante con la tasca davanti contenente un coltello tozzo e rifilato artigianalmente. L’inverno portava sopra al fazzoletto leggero una mantellina di lana nera che le scendeva sulle spalle e il vestito era sempre scuro ma più pesante e rinforzato da un giacchetto di lana, le calze grosse e nere come le scarpe.

La Bertina è strada chiusa. A quei tempi dopo la mia, poche case, finiva in campagna a guardare il lago. La nonna Chiara mi ci portava a cogliere le meluzze deliziose e selvatiche di un alberello tutto storto, oppure a mangiare l’uva tonda, piccina e gialla gialla di antiche e abbandonate viti di moscato. Quando avevamo più tempo e voglia di camminare si arrivava fino da Ippolito a guardare le pecorelle e gli agnelli e a raccogliere le ghiande dell’albero più grande di cui avessi avuto esperienza.

cicoria 2
Cicoria

La Rosina però quando tornava su non aveva nè meluzze, nè uva, nè ghiande… ma sul ventre un gonfiore importante. La tasca del grembiule straripava tanto da dover ripiegare la parte finale della parannanza. Mia nonna la guardava e le chiedeva “Fatto l’erba Rosì?”. “Sì, Sora Chià ho fatto l’erba ma no pe’ lì coniji, pe’ l’acquacotta”.  Senza esitazione la nonna andava verso il cancello e la faceva entrare, le donne si capivano solo con lo sguardo. La Rosina faceva solo due passi e Filippetto, quando c’era, correva verso la mia bici blu e bianca ormai senza rotelle, giusto il tempo per fare un giretto e una impennata. La nonna riappariva con un pacchetto fatto di carta di giornale dove dentro c’erano le uova delle sue gallinelle e le porgeva a al Rosina che intanto sopra il tavolo, sotto il porticato, aveva composto tutti mucchietti di erbe. Le ripuliva dalla terra o dal gambo in eccesso col sul coltellaccio. “Rosì ecco l’ova pe’ l’acqua cotta, te l’ho messe due dippiù che a Filippetto je farebbero bene sbattute con un pò di zucchero….”. “Sora Chià guardate n’pò che cicoria!”

A questo rito del baratto assistevo in silenzio con un occhio sul ragazzino che mi preoccupava un pò a vederlo cavalcare il mio destriero di ferro.

Un giorno la Rosina si rivolse a me dicendo: “Cocca impara bene! Guarda bene! Perchè ner monno a nun conosce la cicoria poi finì pe coje l’pisciacane”

Pisciacane: Tarassaco dal fiore giallo
Pisciacane: Tarassaco dal fiore giallo

L’acquacotta de La Rosina

acquacotta piattoIngredienti per 4 persone

Per il soffritto

2 Cipolle

2 spicchi d’aglio

3 pomodori tagliati a dadini

2 coste di sedano

2 carote

1 peperoncino secco

Olio Extre Vergine di Oliva della Tuscia

Erbe da tagliare grossolanamente: tutte le erbe selvatiche commestibili (Cicoria, tarassaco “pisciacane”, borragine, finocchio selvatico, nepitella, pimpinella..) almeno 300 gr

Uova, uno per ogni commensale per cui 4

Pane raffermo

Formaggio stagionato da grattare (tradizionalmente pecorino, presente in molte case contadine)

2 l di acqua carlda

Sale e pepe q.b.

N.B. L’acquacotta è un piatto simile ad un minestrone, si possono aggiungere verdure e legumi a piacimento. Usata tradizionalmente come piatto povero e con erbe da repire direttamente in campo, la sua particolarità sta proprio nel sapore perduto della misticanza di antiche erbe spontanee.

Preparazione

Sbucciare le cipolle. Lavare il sedano e le carote e ridurle a cubetti piccolini insieme alla cipolla. In una casseruola (tradizionalmente si usava una pentola in coccio) o in una pentola capiente a fondo alto mettere a soffriggere l’aglio, con 4 cucchiai d’olio E.V.O. della Tuscia, quindi aggiungi le verdure già fatte a cubetti, il peperoncino, i pomodori tagliati grossolanamente e salare.Lasciare insaporire per qualche minuto, mescolando con un cucchiaio di legno.

Aggiungere i 2 litri di acqua calda. Dopo circa mezz’ora aggiungere le erbe di campo scelte e lascaire sobollire a pentola coperta, su fuoco bassissimo per circa 2 ore e mezzo (aggiungere ancora acqua cosamai evaporasse troppo ma badando che risulti sempre piuttosto densa). Verso la fine della cottura della minestra, tagliare il pane raffermo a fette (casomai non ne aveste basterà brustolire quello fresco), e distribuiscile a pezzi in 4 piatti fondi.

Poco prima di servire rompere le uova nel brodo uno per volta, giusto il tempo di rapprendersi leggermente e nel servire la zuppa nei piatti fondi sopra le fette di pane, mettere un uovo al centro di ogni piatto. Condire con Olio E.V.O. della Tuscia, completando a piacere con una spolverata di pecorino o formaggio stagionato.

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