Trappolini, storia di una tradizione familiare

Nell’Alta Tuscia, in una terra di confine dove si incontrano Lazio e Umbria, tra le valli del fiume Tevere, si trova la cantina Trappolini. Siamo nel Comune di Castiglione in Teverina, un incrocio articolato di caratteri rende questi suoli particolarmente interessanti. Compreso nel complesso di origine vulcanica dei Monti Volsini con terreni tufacei, fertili molto minerali, tendenti al rosso, il territorio di questa zona offre  variazioni di colore che  evidenziano apporti minerali diversi, in alcuni casi più scuri e intensi, in altri sabbiosi e più chiari.  

Da queste terre così ricche e importanti nascono i vini Trappolini. La cantina si trova subito sotto il paese. I fratelli Trappolini, Roberto e Paolo che dal 2002 conducono la cantina e l’azienda ci stanno aspettando.

Carlo con Mario Trappolini

Stiamo per iniziare a parlare con Paolo, enologo, quando arriva Mario, il babbo. È stato lui a cominciare il commercio di vino portando ai suoi compaesani  che  si allontanavano per necessità, una damigiana da 54 litri di sapori e odori della propria terra. “Nel novembre del 1961” ricorda “ho iniziato portando il vino ai castiglionesi che emigravano in cerca di lavoro. Prima a Roma, dove perlopiù diventavano portieri, e quindi fornitori di vino per tutti gli inquilini del palazzo, poi a Milano, Firenze, Bologna, Torino. In parte era il vino prodotto da mio padre, in parte lo compravo, anche dal babbo di mia moglie Marcella”.

L’Italia in quegli anni attraversa un periodo di forte cambiamento, il boom economico ha avviato un processo di trasformazione delle strutture sociali e delle attività produttive  con una forte crescita del settore industriale e il declino delle attività agricole. Le campagne si spopolano e una serie di interventi legislativi conducono alla fine della mezzadria. Castiglione non fa eccezione, l’unica attività che continua a dare  lavoro è l’azienda del Conte Vaselli (ora Museo del Vino: da visitare), che da sola non può risolvere i problemi occupazionali dell’intera comunità e gli abitanti si dirigono in cerca di situazioni migliori nelle grandi città.

Il legame con il paese è Trappolini che ancora oggi mantiene quel rapporto storico con i più anziani. Il vino sfuso, oggi, è un canale di vendita marginale ovviamente, ma rappresenta la voglia di una comunità di riconoscersi nelle proprie tradizioni nella propria terra e nel suo vino emblema della sua quotidianità, della sua storia.

A distanza di quasi trenta anni avviene il passaggio dalla damigiana alla bottiglia:“Nel 1988-89 iniziammo l’imbottigliamento, cambiavano le richieste del mercato e Roberto, il più grande dei miei figli, diede una svolta alla cantina, pensando a una vendita diversa  cominciando a partecipare alle Fiere del vino in Italia e nel mondo, mentre il più piccolo, Paolo dal 1984 iniziò a studiare enologia”.

In questo momento la cantina utilizza ancora uve non proprie, ma acquistate dalle aziende limitrofe dove gli impianti non sono specializzati. Le uve vinificate sono soprattutto bianche, quelle dell’Orvieto che, come da disciplinare, prevedeva la presenza in diversa percentuale di drupeggio, grechetto, malvasia, procanico (o Trebbiano toscano) e verdello complanari. Anche le uve rosse erano complanari: Ciliegiolo, Sangiovese, Montepulciano, Aleatico. Ancora oggi l’Orvieto è un uvaggio, ovvero le uve vengono raccolte e  vinificate assieme,  non separatamente, e poi assemblate in un secondo momento come è ormai pratica comune.

L’unica selezione possibile in quel momento era per cru.

Carlo Zucchetti viene riportato immediatamente a quegli anni: “Mi ricordo, quando si doveva selezionare il vino per le Feste provinciali dell’Unità, la scelta finiva sempre su Trappolini,  era un rosso potente, intenso, deciso che ben si adattava al carattere della classe operaia, degli artigiani e dei contadini, in altre parole alle classi subalterne come ci piaceva  chiamarle allora”.

Mario replica sull’onda dei ricordi: “Ancora più grandi erano le Feste del Partito (come comunemente i militanti chiamavano il PCI) a Castellanza (VA) o a Legnano (VA), c’era una grande adesione, partecipavano  molte persone  del Meridione che in particolare apprezzavano il nostro vino”.

Paolo con una lieve sfumatura di toscano nel parlare, acquisita negli anni di frequentazione della Regione dei grandi rossi come enologo, prima a Montepulciano da Avignonesi, infine da Petra a Suvereto, riprende il filo del discorso e ritorna alla storia della cantina:

“E arriviamo agli anni ’90, come dicevamo poco fa, avevamo appena iniziato a imbottigliare e decidemmo di fare una maggiore selezione sulle uve, focalizzandoci in particolare sui rossi, senza abbandonare i bianchi”

“E il Paterno – commenta Carlo –  conferma la validità della scelta.”

“Anche sul bianco abbiamo voluto sperimentare e nacque il Sant’Egidio, un Orvieto con la quantità massima di Grechetto ammessa dal disciplinare. Era un vino che si distingueva, si allontanava dall’Orvieto usuale che era sbiadito, bianco, fresco. Avevamo ottenuto un vino più importante senza passare in barrique, ma grazie a un’attenta selezione delle uve e facendolo stare un anno in acciaio sulle proprie fecce. All’epoca era un procedimento poco utilizzato. Purtroppo anche se apprezzato, togliemmo il Sant’Egidio dal mercato perché non era sufficientemente competitivo sui prezzi”.

La memoria gustativa di Carlo viene solleticata: ”Ricordo che lo scorso anno assaggiammo qui,  insieme ad alcuni amici enogastronomi e giornalisti, un Sant’Egidio del ’92. Un vino che ha avuto un’evoluzione incredibile, tanto che forse dovreste riprenderlo in considerazione”. Paolo sorride senza rispondere come se stesse valutando l’ipotesi, poi riprende:” Iniziammo a lavorare sui bianchi partendo da un Grechetto e uno Chardonnay su due etichette, poi per un periodo mettemmo insieme le due uve”.

Carlo apprezzando il bicchiere di Sartei (Malvasia bianca e Procanico toscano) che Paolo ci ha appena offerto lo interrompe: ”In quel periodo Marchesi Antinori propose il Cervaro della Sala prodotto da uve Chardonnay e Grechetto, il suo successo ispirò molti produttori della zona”. Poi porta il discorso sull’Aleatico:” Voi siete stati i primi a proporre un Aleatico non liquoroso come si faceva per tradizione. Puntando sul passito e sull’eleganza. Ad oggi ci sono, finalmente, in Tuscia una decina di cantine che lo producono. D’altronde la nostra zona coltiva questo vitigno da secoli, insieme ad altre due zone d’Italia, l’Elba e la  Puglia. Qual è stato il percorso seguito per arrivare al vostro Idea?”

“Per completare la gamma dei vini ci serviva un vino dolce, passito e abbiamo deciso di puntare sul vitigno dolce per eccellenza della Tuscia: l’Aleatico. È stata fatta una selezione accurata delle uve, il babbo ha cercato personalmente le barbatelle nelle vecchie vigne di Gradoli. Le uve dell’Aleatico vengono raccolte manualmente e in parte vinificate subito, in parte lasciate nel tunnel di appassimento. Verso la fine di dicembre si assemblano i due vini ottenuti per arrivare a Idea. Dalle vinacce di Aleatico, grazie a un Maestro distillatore, Berta, si ottiene poi la Grappa Idea”.

“Mi ricordo” racconta Carlo sorridendo “quelle serate passate ad assaggiare il vino cercando di scegliere un nome. Tra un bicchiere e l’altro, fino ad arrivare a notte fonda. Mario una notte ci chiese cosa stessimo facendo. Roberto rispose che stavamo cercando un’idea per il nome da dare all’aleatico. «Metteteje nome Idea e annate a letto, che domani c’è da lavora’! » rispose Mario.”

Carlo ritorna sui rossi in particolare sul Paterno fiore all’occhiello della cantina, apprezzato dalle guide e dai consumatori: “Tra i cru dell’azienda è d’obbligo menzionare il Paterno, primo imbottigliamento nel 1989. Un Sangiovese in purezza, legno grande e barrique di diversi passaggi, un vino importante con una complessità interessante. Ricordo che nel 2010 al Vinitaly, organizzai una verticale di 20 anni di Paterno I.G.T. Lazio Rosso, fu un grande successo, giornalisti e operatori enologici furono entusiasti . ”

Sulla parete gli attestati delle guide soprattutto per il Paterno e per Idea.

“Adesso avete un’azienda con 23 ha vitati e state puntando  sempre più sui vitigni autoctoni, Grechetto, Trebbiano, Aleatico, Violone (clone di Montepulciano) e il Sangiovese.

La zona anche grazie a voi ha scoperto la potenzialità e l’importanza di lavorare sul territorio e sui vitigni della tradizione locale .” Chiede Carlo mentre scendiamo a visitare la

cantina. Ci raggiunge anche Roberto.

“ I terreni sono stati acquistati circa 15 anni fa e abbiamo iniziato a impiantare. La scelta di rivolgerci ai vitigni autoctoni ci è sembrata in linea con il percorso qualitativo fatto dall’azienda che ha sempre mantenuto un forte legame territoriale. Tutti i vini vengono testati in azienda per anni, per accertare la capacità di mantenimento delle caratteristiche nel tempo. Abbiamo un rosso di 10 anni che ancora non è stato messo sul mercato! A mio parere anche i nostri bianchi non andrebbero consumati subito per questo stiamo lavorando sul Grechetto, sulla sua evoluzione. Grazie all’esperienza di Sergio Mottura e alla longevità dei suoi grechetti”

Carlo concordando  aggiunge: “Il lavoro principale è in vigna. Ho visto, tuo padre, Mario lavorare in vigna insieme a tua madre Marcella (Caròla come la chiamano scherzando affettuosamente in famiglia) fianco a fianco agli operai in tutto il ciclo vegetativo  dalla potatura alla vendemmia.

“La cosa più importante per un viticoltore è sviluppare una sensibilità particolare verso la pianta. Per sensibilità intendo la capacità di conoscerle, intuirne i bisogni. Non tutte le piante richiedono la stessa potatura, ci vuole una particolare propensione a capire e cogliere i segni, insomma ci vuole un’esperienza che solo il lavoro sul campo può dare. Concettualmente la Biodinamica sotto molti aspetti è interessante, sta riscoprendo pratiche che erano dei nostri nonni. A partire dalle lavorazioni manuali che sono fondamentali. Concimare con il letame maturo o fertilizzare il terreno con la pratica del sovescio permette di non aggredire la vigna con sostanze chimiche e di avviarsi a una produzione che rispetta l’ambiente e le persone. La semina delle graminacee o del favino a filari alterni avvicendati ogni anno permette l’apporto di sostanze azotate o organiche. La pratica del sovescio consiste nello sfalcio, nella trinciatura e nell’interramento della coltura erbacea e questo contribuisce al mantenimento di una buona struttura del terreno e alla produzione di humus. Un altro momento importante è il diradamento, mio padre inizialmente ha fatto molta resistenza verso questa pratica per poi diventarne un accanito sostenitore. È superfluo dire che ci vuole una mano esperta per ottenere un buon risultato.”.

Paolo ci fa assaggiare il vino che non c’è, il rosso non ancora sul mercato, ma non solo. Aromi differenti e armoniosi, ora più intensi, ora più morbidi lasciano la loro impronta sulle papille gustative, i ricordi delle varie edizioni di Vinitaly, di anteprime, di degustazioni  fatte in diverse occasioni riempiono l’aria.  Roberto tenta ripetutamente un timido saluto, ma viene subito coinvolto in una nuova conversazione e riportato dentro a discussioni e pareri.

Saliamo dalla cantina, fuori  come direbbe Montale abbuia, ma la compagnia è piacevole.

La  naturale  e generosa ospitalità Trappolini è alla ricerca di qualcosa di veramente speciale da offrirci: i calici  accolgono un Brecceto del 1993 e Paolo affetta la ventresca di mamma Marcella, quale migliore conclusione?

 

 

 

Se siete al Vinitaly 2013 e volete degustare i vini Trappolini cercate il Padiglione 7B L3

oppure Regione Lazio Padiglione A Palatium 32

 

TRAPPOLINI

 

 

 

 

 

Via del Rivellino, 65

01024 Castiglione in Teverina (VT)

Tel. e fax 0761/948381

info@trappolini.com

www.trappolini.com

 

Brecceto I.G.T. Lazio bianco (Grechetto)

Est! Est!! Est!!! di Montefiascone D.O.C.

Orvieto D.O.C.

Sartei I.G.T. Lazio bianco (Malvasia, Trebbiano)

Cenereto I.G.T. Lazio rosso (Montepulciano, Sangiovese)

Paterno I.G.T. Lazio rosso (Sangiovese)

Idea I.G.T. Lazio 0,500 l. (Aleatico Passito)

 

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