Minimalismo commestibile

Il Minimalismo più che un movimento artistico degli anni Sessanta del XX Secolo è un atteggiamento presente da sempre nell’arte. I caratteri principali del Minimalismo sono sostanzialmente due: la riduzione e la geometria. Si riduce al minimo il colore e la decorazione, si geometrizza la forma portandola a piani o solidi primari, spigolosi e lisci. I minimalisti vogliono di solito mostrare l’essenziale della forma e indicare nella mente il luogo dell’esplicazione dell’arte, sfruttando la dosatura delle masse nello spazio operano su uno spazio scenico alternando vuoti a pieni sempre rigorosamente squadrati e rigidi. In questo modo i minimalisti danno agli ambienti una organizzazione razionale dando alla vita del pubblico che scorre al loro interno una rilevanza fenomenica, un risalto tale da farla sembrare un evento eccezionale. Su questo contrasto si basa anche l’idea di appoggiarsi al pubblico per il completamento dell’opera d’arte, di sfruttarne il potere transitorio e cangiante delle emozioni, di mostrare come la mutevolezza e la soggettività dei gusti scivoli sopra immota inamovibilità di cubi e parallelepipedi, di trapezi isosceli e scaleni, di scoscesi lati e rigidi angoli mai curvi, rotondi e morbidi sinuosi ricoveri per lo sguardo, mai languide sfumature e calorose concessioni cromatiche. La messa al bando delle emozioni non significa però non prevederle. A ogni sbarramento opaco degli elementi minimal corrisponde infatti una reazione contraria di apertura interiore, alla neutralità denotativa corrisponde una peculiarità connotativa. Ciò accade anche per opere che utilizzano il cibo come materia, sì, proprio il cibo abbiamo visto essere stato utilizzato dagli artisti per dar vita al genere della natura morta, mi si perdoni il gioco di parole, e alla relazione tra uomo e uomo, performance culinaria di manipolazione sino a rasentare l’astrazione, ma mai nella sua rigidità minimale, nella sua neutralizzazione a semplice bersaglio percettivo, che offre le sue qualità solo all’occhio, mai più al palato. Sto parlando dell’utilizzo che fanno del cibo i due artisti Mario Campo e Lorena Stabile, I CAMPOSTABILE. Sono delle forme acute, geometricamente definibili in trapezoidi che si sovrappongono e sfruttando le trasparenze del tessuto superficiale creano delle velature, degli ispessimenti e delle ombre nette quasi a proporre una sorta di tridimensionalità. Danielacompostabile Bigi che ne ha seguito gli esordi, definiva anni fa Campostabile come dei selettori di materia reperita dal moto ordinario del tempo: “le forme derivano dalla contaminazione con certe dimensioni del quotidiano, nascono desiderose di impregnare il vissuto e ben certe di rimanerne impregnate. Salvo poi svincolarsi da ogni referenzialità, da ogni legaccio rappresentativo, per cercare una allocazione altra alla propria esistenza. Nei loro interventi mettono in atto un movimento indeterminato di andata e ritorno tra opera e oggetto di design, cercando soluzioni formali che possano superare sia gli steccati disciplinari […] sia i riti abituali del consumo”. Il risultato e che le loro sculture sono piani delicatamente disposti su parallelepipedi bianchi, piani sporgenti di trasparenti fogli di fichi e di mandorle ( Fichi su Mandorle, 2014) o di senape e ceci su legno (Senape e Ceci, 2014) sottili membrane tessute in quadratini ritmati o puntini, piani di granulosità diverse tagliati da linee Senza titolo-1nette. Il Minimalismo qui cede un poco alla lusinga retinica, eppure è ancora legato alla purezza, è come se cercasse di far trapelare la natura alimentare, e in un certo senso il sapore, come s’è detto prima per contrasto. La forma diventa il terreno per una sfida con l’arcaico, inteso come ciò che è antropologicamente radicato negli usi e costumi di una comunità, irreggimentato in una rigidità che lo fa sembrare un campione, un pattern, un motivo da ripetere industrialmente nella produzione in serie. Anche nelle installazioni con le arance (foto in evidenza), intitolate appunto, Arance (2014) i magici pomi sono integrati in un assetto rigorosamente geometrico. Proprio qui sembra avvenire il miracolo: il cibo, trattato alla stregua di un materiale industriale, così rigidamente mostrato sotto forme mentali e razionalizzato da un’astrazione esemplare, torna a farsi appetitoso, calda testimonianza di sapiente manualità restituisce un sapore, quello della terra, una sua origine informe ribelle a ogni tirannia dell’artificio se non quello amorevole del contadino, ubbidiente solo al ciclo delle stagioni e non all’eternità dell’ idea.

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